Sandro Donati, esperto di problematiche legate al narcotraffico (è consulente della WADA, agenzia internazionale anti-doping, ed è stato consulente del Ministero della Solidarietà Sociale), è direttore scientifico del progetto Narcoleaks, che raccoglie un gruppo di ricercatori volontari italiani impegnati nel monitoraggio dei dati relativi alla produzione e al commercio di cocaina a livello globale. Pochi giorni fa abbiamo dedicato un pezzo a Narcoleaks, in merito all’apprensione suscitata presso la Casa Bianca dalla diffusione di un documento redatto dal gruppo, eloquentemente intitolato “Le bugie di Obama sul traffico internazionale di cocaina”. Ora Giacomo Guarini ha incontrato ed intervistato per noi il direttore Donati.
Può farci una breve presentazione del progetto Narcoleaks, che lei anima in veste di Direttore Scientifico?
Narcoleaks nasce da un’idea di Giovanni Augello, giornalista del Redattore Sociale, che partecipò assieme ad altri giornalisti ad una conferenza stampa che io e don Ciotti [presidente dell’associazione Libera ndr] facemmo nel gennaio del 2009, in cui rendemmo noti i primi risultati dello studio che stavo realizzando sulla produzione e sui traffici mondiali di cocaina.
Narcoleaks riguarda solo una parte dello studio e si occupa del monitoraggio e della pubblicazione continuativa nel corso dell’anno dei dati relativi ai sequestri mondiali di cocaina. Abbiamo creato uno staff composto da giovani giornalisti motivati, che abbiamo addestrato anzitutto alle modalità di raccolta dei dati, le quali sono molto minuziose. Nel reperire i dati privilegiamo le fonti istituzionali (organi governativi dei vari paesi coinvolti nel traffico) e in subordine una grossa catena di media che assumiamo per credibili nel momento in cui ritroviamo le loro notizie sulle fonti istituzionali, nella stessa formulazione e riferite a un responsabile antidroga o comunque ad un’autorità del paese del sequestro.
Pur muovendovi semplicemente in ambiti ufficiali – senza evidentemente diffondere documenti ed informazioni dell’intelligence o confidenziali di vario tipo – avete pubblicato un documento lo scorso 7 dicembre, dal quale emergono dati molto interessanti e discrepanze anche forti nelle pubblicazioni dei dati sul traffico di cocaina diffusi dagli USA. Inoltre la vostra, per quanto ben organizzata, resta una piccola realtà ed il documento pubblicato ha sì avuto una certa rilevanza in Italia e all’estero ma ciononostante era ancora ben lungi dal far parlare di sé sulle pagine delle principali testate nazionali e internazionali. Ciononostante la Casa Bianca è subito intervenuta conun comunicato ufficiale di smentita delle conclusioni del vostro studio. Una reazione a dir poco anomala.
Le discrepanze nei dati che abbiamo rilevato non sono forti, sono abissali.
La risposta della Casa Bianca al nostro comunicato assume carattere inusitato, quasi incredibile per l’organismoin questione, ma si spiega in maniera chiara: il Dipartimento di Stato sa bene quale voragine viene occultata e quindi in quei dati ha visto il cuneo o il segnale premonitore o una sorta di avamposto di uno scavo che potrebbe portare lontano. Ma sono gli organi di stampa che dovrebbero chiedersi come mai il Dipartimento di Stato si è premurato di dare questa risposta.
C’è da dire che probabilmente la Casa Bianca era già in allerta su certe questioni scottanti, nella misura in cui anche sul New York Times emergevano – nei giorni immediatamente precedenti – dei rumors su gravi coinvolgimenti della DEA (agenzia antidroga USA) nel narcotraffico centro e sudamericano.
E’ evidente che il quadro è complesso e vi è tutta una serie di fattori di cui hanno tenuto conto: quello che ha scritto il New York Times in questi giorni ma anche ciò che aveva scritto tempo fa, quando parlò del fratello di Karzai – coinvolto nel narcotraffico in Afghanistan – che era sul libro paga della CIA.
E mi permetto di aggiungere un tassello particolarmente interessante: alcuni giorni dopo la pubblicazione del documento – siamo al 13 di dicembre – giunge la notizia che procuratori federali degli Stati Uniti accusano Hezbollah di coinvolgimento nel narcotraffico in Centro e Sudamerica. In sostanza gli USA rilanciano le accuse mosse nei loro confronti verso Hezbollah, che è chiaramente un avversario politico molto forte e tanto più insidioso in questa fase di destabilizzazione del Mediterraneo orientale. Vuol dirci qualcosa al riguardo?
Sono ormai abituato in questi 4 anni di ricerca giornaliera ad esaminare i loro comunicati o le loro analisi, che mirano sempre ad obiettivi di carattere politico. Mi chiedo: un organismo che nel trattamento dei dati e nella diffusione mondiale di analisi sullo stato del narcotraffico si è comportato in maniera così inaccettabile, in che modo può essere credibile nel momento in cui produce analisi specifiche ora su questo ora su quell’altro soggetto, come nel caso di Hezbollah? E’ noto che le banche statunitensi e non solo loro (anche quelle panamensi, ad esempio), sono fortemente coinvolte nel riciclaggio. E quindi quest’accusa ad Hezbollah – limitata ad una cifra di 250 milioni di dollari, mi pare – costituisce al più una goccia nel mare.
Posso fare un esempio analogo a quello appena proposto: seguo con costante attenzione quei comunicati che gli USA organizzano in simbiosi con il governo colombiano, nei quali cercano di prospettare l’idea che tutto il narcotraffico sia nelle mani delle FARC, che è un’idea assolutamente inconsistente. Le FARC sono sì uno dei gruppi che trattano il narcotraffico; non possiamo infatti negare che siano un’organizzazione di tipo ideologico, ma hanno anche forti responsabilità nel narcotraffico. Eppure c’è uno sterminato ruolo dei paramilitari nel settore, il quale viene invece sistematicamente coperto.
In una recente intervista, uscita all’indomani della pubblicazione del documento, lei fa riferimento a gravi casi di coinvolgimento di elementi degli organi statunitensi (CIA e DEA) nel narcotraffico in America Latina. Quale valore geopolitico e geoeconomico assume il narcotraffico nell’area per la superpotenza statunitense e per eventuali altri attori continentali e globali?
Purtroppo il ruolo degli USA nel narcotraffico della cocaina in Centro e Sud America è nient’altro che l’ennesimo episodio storico. Molti studiosi hanno già approfondito il loro ruolo nel conflitto in Vietnam; è con l’inizio di quel conflitto che esplose la produzione d’oppio nel triangolo d’oro (area compresa fra Myanmar, Laos e Thailandia, ndr) e soprattutto è esplosa la quota che veniva trasformata in eroina (storicamente l’oppio veniva consumato tal quale era in Asia) e che poi veniva trasportata evidentemente in Europa e negli stessi Stati Uniti.
Per quel che riguarda l’area latinoamericana, il ruolo non chiaro degli Stati Uniti emerge dalle stesse inchieste del Senato americano, come quella di fine anni ’80 condotta da John Kerry – che poi diventerà candidato alla presidenza – la quale non poté non ammettere che c’erano numerosi casi di coinvolgimento della CIA e della DEA nella vendita della cocaina per il rifornimento di armi ai contras in Nicaragua.
Vi sono, d’altro canto, le accuse che parti del governo messicano hanno mosso agli Stati Uniti anche recentemente e la stessa Chiesa Cattolica, ai vertici episcopali messicani, ha preso posizione di aperta condanna dei sordidi traffici tra gli Stati Uniti ed il Messico sullo scambio cocaina-armi.
Non dimentichiamo inoltre significativi episodi accaduti in altri paesi dell’area, come Panama, che è un crocevia importantissimo non solo del traffico di cocaina ma anche del riciclaggio di denaro. In questo paese nel 2006 è morto per avvelenamento il capo dell’antidroga, Franklin Brewster, in circostanze assolutamente sospette. C’è un ruolo molto forte dell’ambasciata americana e dell’FBI nel prospettare i risultati di un esame autoptico che – non si sa per quale ragione – non è stato effettuato a Panama, pur avendo Panama a disposizione tutte le apparecchiature necessarie. Si disse che il gascromatografo, un’apparecchiatura di analisi sofisticata, in quei giorni non funzionava a Panama, anche se poi altri testimoni smentirono tale asserzione. In ogni caso i referti autoptici della vittima furonomandati negli Stati Uniti e tornarono in una maniera assolutamente strana: su carta non intestata e con riferimenti a matricole di catalogazione che non corrispondevano a questo Franklin Brewster, bensì ad altre persone, di cui una morta a sua volta, un’altra invece viva e vegeta, entrambe allora ricoverate nello stesso ospedale. Una manipolazione incredibile dei dati.
Ed in quel periodo Panama era diventato un crocevia di passaggio non soltanto di una quantità crescente e smisurata di cocaina, ma anche di traffico di armi. Ci sono anche documenti delle stesse FARC, sequestrati in occasione dell’uccisione di Reyes, il capo di allora delle FARC, che indicano in maniera chiara che le stesse trattavano con le autorità panamensi per acquisire armi attraverso uno scambio con la cocaina. Abbiamo quindi un contesto specifico in cui erano coinvolte sia le FARC sia parti dell’intelligence americana.
Vorrei adesso spostare l’attenzione sulla massa continentale eurasiatica e confrontarmi con lei sul rapporto fra narcotraffico e guerre ‘umanitario-securitarie’, partendo dall’Afghanistan. Dati delle Nazioni Unite segnalavano nel 2001 un calo della produzione di oppio pari al 94% rispetto all’anno precedente; un calo avvenuto contestualmente all’emissionedi una fatwa che vietava simili attività. Poi è arrivata la guerra, la produzione è ripresa e più volte sono emerse notizie relative al coinvolgimento nel narcotraffico di elementi delle forze occidentali intervenute nel conflitto. Può presentarci un suo quadro della situazione?
La questione afghana è una cartina di tornasole, un qualcosa che consente di comprendere tutto ed è sconcertante come osservatori ed esperti di narcotraffico facciano finta di non vedere. Ci sono infatti una serie di elementi eclatanti che parlano con estrema chiarezza.
Anzitutto, fino a prima che iniziasse il conflitto afghano – mi riferisco al periodo precedente finanche all’invasione sovietica in Afghanistan – la produzione nel paese era una percentuale minima di quella mondiale. Diciamo che la quasi totalità della produzione mondiale era tutta quanta concentrata nel triangolo d’oro. La produzione afghana cominciò a muoversi durante l’invasione sovietica e ci sono molti riferimenti che indicano come gli Stati Uniti finanziassero i mujahidin all’epoca, proprio facilitando il traffico dell’oppio. Fatto è che l’Afghanistan cominciò a produrre una parte un po’ più consistente della produzione mondiale, portandosi intorno ad un 15-20% del totale, ma il triangolo d’oro continuava sempre ad essere dominante nel settore. Quando i sovietici si ritirarono, la produzione era ormai consolidata, e rimase tale sino a che nel 2000 intervenne un primo editto dei talebani. Questo editto provocò una prima diminuzione che mi pare si attestò attorno ad un 20-30% della produzione. L’anno successivo i talebani fecero sul serio, perché emisero un altro editto molto più duro che evidentemente spaventò i contadini; fatto sta che la produzione venne pressoché azzerata e si ridusse a circa un 7-8% di quello che era prima. Ora, nell’ottobre del 2001 arrivano gli americani e i loro alleati. Quello che è eclatante è seguire la curva con la quale da quel momento in poi aumenta annualmente la produzione di oppio. La pendenza della curva dimostra un aumento di produzione spaventosamente più elevato rispetto alla lenta crescita avuta durante il periodo dell’occupazione sovietica. La produzione arriva infatti a raddoppiare o triplicare anno per anno e si arriva ad una situazione limite intorno al 2007, anno in cui l’Afghanistan diventa pressoché il monopolista nella produzione mondiale. E quindi qui intervengono diversi fatti clamorosi che vanno osservati con attenzione: non soltanto l’Afghanistan vede esplodere la sua produzione, ma al tempo stesso crolla quella del Sud-Est asiatico. E qualcuno mi deve spiegare chi è che manovra quello che io definisco una sorta di simbolico semaforo internazionale che diventa rosso da una parte e verde dall’altra. Sul versante del triangolo d’oro, d’improvviso cominciano a funzionare tutte quelle politiche di sviluppo dell’agricoltura alternativa e la produzione di oppio si abbatte fortemente.
In Afghanistan invece assistiamo all’esplosione della produzione in uno dei paesi più controllati al mondo da satelliti, ricognizioni aeree e movimenti di truppe terrestri. Ammettiamo per un attimo di credere alla favoletta che l’oppio si produce soltanto nelle zone controllate dai talebani; dovremmo anzitutto superare la contraddizione che gli stessi talebani in precedenza avevano emesso degli editti contro la produzione. Ma anche volendo ammettere che i talebani a loro volta, accecati dal bisogno di armarsi dettato dalla guerra, abbiano cercato finanziamenti nel narcotraffico: è evidente che gli Stati Uniti hanno una capacità aerea di totale controllo del paese e che i talebani non sono certo in grado di contrastarli dal punto di vista aereo, soprattutto nei voli ad alta quota. Potendosi tutto ricostruire minuziosamente dai satelliti, vi sarebbe la possibilità di distruggere le coltivazioni come per esempio gli stessi statunitensi hanno insegnato a fare ai colombiani con le fumigazioni, cioè gettando sostanze chimiche che cadono sulle piantagioni e le distruggono. Come mai tutto questo non è stato mai attuato in Afghanistan?
Ma poi c’è una seconda domanda più stringente, che supera pure il pretesto che le coltivazioni siano solo nei territori controllati dai talebani: l’oppio coltivato deve poi essere lavorato e trasformato. Dei vari passaggi necessari il primo è la trasformazione in oppio dei fiori. Che già significa movimentare delle quantità notevoli di materia prima, che dal punto di vista di volume e peso è in rapporto di 5 a 1 rispetto all’oppio che ne verrà ricavato. La merce si sposta con camion e poi arriva nei laboratori nei quali deve essere trasformata in oppio e da oppio in eroina. Qualcuno dovrebbe spiegare alla comunità internazionale per quale motivo dai report dell’ONU emerge un numero bassissimo di laboratori di trasformazione dell’oppio in eroina in Afghanistan. Ed anche come esce questa quantità immensa di oppio ed eroina dall’Afghanistan, visto che gli americani in teoria controllerebbero tutto. Le questioni per la verità sono tante e l’esplosione di produzione in Afghanistan comporta un’altra considerazione di estrema importanza: per la prima volta in maniera eclatante si dimostra che, decidendo a migliaia di km dai mercati di consumo che si deve aumentare la produzione, si è comunque sicuri che quella produzione avrà buon fine, avrà – in sostanza – sbocco nel mercato. E questo dimostra in maniera inequivocabile che è l’offerta che determina la domanda, e quindi è almeno in parte fallace tutta quella serie di argomenti addotti soprattutto in America Latina per spiegare che la produzione è colpa dei paesi che consumano.
E’ un problema geopoliticoa monte…
Chiaramente. Non si tratta di scelte dei consumatori: i consumatori sono un branco di pecore che vanno a mettersi in fila come per ogni prodotto commerciale che viene opportunamente propagandato. Questa regola vale anche e ancor più per questo tipo di sostanze.
Lei ha parlato di consumo ed io vorrei spostarmi da un estremo ad un altro e parlare dei Balcani, che rappresentano lo sbocco ultimo dei traffici verso l’Europa. In quest’area abbiamo assistito a tragiche guerre negli anni ’90 e da ultimo l’intervento per l’indipendenza del Kosovo, nel quale si è anche sostenuta quell’UCK coinvolta poi in accuse legate al narcotraffico, al traffico d’armi e finanche d’organi. Vorrei chiederle allora di dirci qualcosa sui Balcani e sull’effetto che simili interventi militari hanno potuto avere sul narcotraffico.
Premetto che il passaggio dell’oppio dall’Afghanistan si diparte in diverse direzioni. Una di queste è il Pakistan, poi c’è un passaggio attraverso l’Iran, sbocchi immensi che vanno verso le ex-repubbliche dell’Unione Sovietica ed altri verso i Balcani. E ciò comporta una serie di conseguenze perché laddove passa la droga anzitutto lascia come scia un aumento del consumo locale. Questo per una ragione molto semplice: diverse persone implicate nel traffico della droga vengono pagate con la droga stessa e poi la rivendono e quindi fanno da moltiplicatori in loco della droga; molto spesso diventano essi stessi tossicodipendenti. E la droga si va sempre ad abbinare in maniera perfetta con altri traffici fra cui quello delle armi; questo è un punto importante. E quindi che cosa accade? Popoli o fazioni che nelle diverse zone comunque ambiscono ad armamenti possono rendersi complici del traffico della droga non soltanto perché pagati, ma anche perché in cambio ricevono accesso alle forniture di armi. Questo è un punto chiave importante da tener presente, anche per i Balcani. Tenga poi presente che in quest’area non c’è solo passaggio di oppio: per incredibile che possa essere, i Balcani stanno diventando anche snodi fondamentali per il passaggio della cocaina e recentemente c’è stato per esempio un sequestro gigantesco e senza precedenti di cocaina in Albania pari a 1 tonnellata. Vi sono degli arrivi documentati sul Mar Nero che poi ritrovano un passaggio attraverso i Balcani per portare in Europa tonnellate di cocaina senza precedenti; un numero impressionante di mulas (così sono chiamati in spagnolo i corrieri della droga) che arrivano dall’America con la cocaina per via aerea soprattutto, ma anche per via marittima, e ne sono stati censiti migliaia in diversi paesi balcanici. Ci sono degli arrivi ‘macro’ (parliamo di tonnellate) – come nell’esempio del Mar Nero e dell’Albania – e ‘micro’ attraverso questi corrieri che ingeriscono gli ovuli o li attaccano sul corpo sotto forma di cintura, etc.
Anche qui dunque possiamo registrare un drastico aumento del traffico a seguito della destabilizzazione causata all’interno e anche indotta dall’esterno di questi paesi?
Sì, dal momento che si sono creati tanti spazi di anarchia in quest’area e un fenomeno analogo è avvenuto nelle ex-repubbliche dell’Unione Sovietica caucasiche, con l’emergere di nuovi e strani poteri e forme di democrazia incompiuta.
Prima ha citato l’Iran, come uno dei canali del traffico d’oppio che parte dall’Afghanistan. In effetti fra l’area di sbocco balcanica e quella di produzione afghana l’Iran rappresenta un importante paese di transito; quest’ultimo si impegna contro il narcotraffico anche con particolare durezza (la maggior parte delle condanne a morte comminate nel paese avverrebbero per reati connessi alla droga). Quali conseguenze avrebbe secondo lei, sul piano del narcotraffico, una destabilizzazione radicale del paese persiano più volte evocata in ‘Occidente’?
L’Iran sembra opporsi con molta decisione e sembra – perché queste sono le informazioni che trapelano – che le autorità iraniane paghino anche un alto prezzo in termini di vite umane di militari e di doganieri addetti al controllo.
La destabilizzazione del paese porterebbe ad una facilitazione del narcotraffico: in qualche maniera l’Iran è una spina nel fianco, che in parte si evita seguendo altre rotte. E al riguardo non escluderei nemmeno che gli aerei militari portino con sé anche eroina…
In effetti, testate giornalistiche autorevoli hanno già riportato in questi anni casi di eroina aviotrasportata dall’Afghanistan su mezzi militari.
Appunto. Come dicevo, al momento l’Iran rappresenta una spina nel fianco ma se dovesse servire potrebbe bypassarsi completamente. Certo è che l’intera questione dei sequestri di eroina a livello mondiale è molto strana: di eroina se ne sequestra poca, mentre la produzione stimata è elevata. Chiaramente l’Iran è di gran lunga il paese che sequestra più di tutti e questo dà uno schiaffo agli altri paesi – in particolare a quelli circostanti – perché questi ultimi non sequestrano. Anche qui è un mistero: non si scoprono laboratori, non si sequestra eroina. C’è una protezione totale su questo prodotto e mi chiedo anche quanta parte di questo serva per finanziare la guerra.
Come commenta le parole dell’ex Direttore Esecutivo dell’Unodc (ufficio ONU contro la droga e il crimine) Antonio Maria Costa, il quale avrebbe dichiarato che “nel 2008 [all’apice della grande crisi finanziaria, ndr] la liquidità era il problema principale per il sistema bancario e quindi tale capitale liquido è diventato un fattore importante. Sembra che i crediti interbancari siano stati finanziati da denaro che proviene dal traffico della droga e da altre attività illecite. E’ ovviamente arduo dimostrarlo, ma ci sono indicazioni che un certo numero di banche sia stato salvato con questi mezzi”?
Io rispondo in questa maniera: Costa in origine è un economista e quindi sicuramente nel fare queste analisi ha utilizzato anche le sue competenze di economista oltre che – essendo il direttore dell’ Unodc – di conoscitore della problematica. Certo, poi trovo divertente il fatto che Costa abbia sviluppato la sua capacità di analisi solo in parte. Perché Costa è stato uno di coloro che ha gestito l’Unodc nel lungo periodo della sottostima della produzione mondiale ed è quindi singolare che denunci poi la gravità del riciclaggio. Personalmente ho avuto modo di incontrarlo alla presenza dell’allora Ministro della Solidarietà Sociale italiano – per il quale svolgevo ruolo di consulente – e alla presenza dell’Ambasciatore italiano a Vienna. E ho incontrato anche i suoi esperti, estensori dei report e quando ho chiesto loro spiegazioni sulla stranezza dei dati mi sono state date risposte assolutamente vaghe ed insoddisfacenti. Di fronte alle grosse perplessità da me espresse, Costa rispose con la proposta di assumere alcuni dei miei collaboratori nell’Agenzia per migliorare il flusso dei dati – proposta molto strana, fatta per giunta davanti alle autorità – e quando gli spiegai che avevo compiuto da solo i miei studi, fece direttamente a me la proposta. Poi cadde il Governo Prodi, lui si sentì in una botte di ferro perché questo Donati non avrebbe più potuto infastidirlo e così non seppi più nulla. Allora è buffo poi rileggere le sue considerazioni, peraltro condivisibili, sul riciclaggio: lui proprio che sa che quei dati erano sottostimati e che quindi il riciclaggio ha delle proporzioni ben più ampie!
Possiamo dunque affermare che l’attuale sistema economico-finanziario internazionale sia fortemente condizionato e sostenuto dal riciclaggio dei proventi del narcotraffico?
Le attività criminali sono molteplici, quindi non c’è soltanto la droga, ed è chiaro che il traffico della droga si tramuta sempre al dettaglio in danaro contante e quindi nella possibilità – anzi nell’urgenza – di liberarsi di questo danaro che scotta e immetterlo in un sistema che richiede liquidità. La domanda che mi sono sempre posto è: cosa provoca tutta questa massa di denaro sporco nel momento in cui viene reinvestita nelle tre branche dell’attività economica (industriale, commerciale o finanziaria)? Ed in subordine continuo a chiedermi: quale economia si continua ad insegnare agli studenti nelle facoltà di scienze economiche? Perché – mi auguro di essere smentito – non mi risulta che in queste sedi venga insegnato il risultato combinato e perverso dell’intreccio tra l’economia cosiddetta delle regole e l’economia di origine criminale.
Credo che per vigliaccheria – non voglio pensare per ottusità – i manovratori, i gestori scientifici del sapere, evitino di approfondire le analisi in tal senso.
A vent’anni dalla fine dell’era post-bipolare assistiamo all’emergere di nuovi attori globali. Ritiene che questi, singolarmente o congiuntamente, possano dare nuova linfa ad un serio impegno alla lotta al narcotraffico internazionale? A titolo di mero esempio, penso alla Cooperazione di Shanghai, un’organizzazione che vede coinvolte Russia e Cina assieme ai paesi del Centro Asia per la sicurezza e la stabilità dell’area, anche in risposta al problema del narcotraffico.
Le rispondo citandole un esempio che conosco meglio, senza addentrarmi in altri che conosco meno. L’esempio è il Brasile e le do un dato nuovo, che non si conosce, ed emergerà prossimamente proprio grazia al lavoro che abbiamo fatto con Narcoleaks. Il Brasile quest’anno ha aumentato a dismisura i sequestri di cocaina. Ormai sfioriamo le 40 tonnellate che è una quantità molto rilevante. Teniamo presente che attraverso il Brasile passa solo una parte della cocaina, quella proveniente dall’asse Perù-Bolivia. Che peraltro non trova solo sbocco attraverso il Brasile ma passa anche attraverso l’Argentina,il Cile, il Paraguay e l’Uruguay. Consideriamo poi che questi due paesi insieme hanno una produzione rilevante di cocaina, ma non sterminata come quella della Colombia, e per questo direi che quelli del Brasile sono ottimi risultati. Avendo studiato con attenzione la ripartizione dei sequestri, ho constatato che molti di questi si realizzano nelle zone di frontiera; ciò vuol dire che le frontiere brasiliane sono protette piuttosto bene. Un 40% dei sequestri si realizza invece all’interno del paese e quindi anche oltre la frontiera, all’interno del paese, c’è un forte controllo. Ora è certo che queste 40 tonnellate rappresenteranno una quota parte magari di 100-120 tonnellate che realmente circolano, ma se altri paesi realizzassero queste percentuali di sequestri direi che saremmo un pezzo avanti. In questo senso nel Brasile vedo un paese nuovo, una forza nuova, però mi chiedo: nel momento in cui questi entrerà a far parte in maniera più salda e perfusa della comunità internazionale, potrebbe l’abbraccio di qualche grosso paese vicino spingere verso altro tipo di interessi per la legge dei vasi comunicanti? Potrebbe allora darsi che magari si cominci a chiudere un occhio sul traffico. Comunque per ora devo dare una risposta affermativa; effettivamente l’impostazione della sua domanda mi sembra corretta e il Brasile ne è un esempio: un paese giovane, pulito e sinceramente responsabile. Le autorità governative, convinte della pericolosità del flagello del narcotraffico, lo combattono realmente e con impegno.
Lei giustamente si dimostra attendista per il futuro: si chiede se prevarranno logiche meno genuine nella lotta brasiliana al narcotraffico, nella misura in cui il Brasile stesso andrà ad integrarsi sempre più nell’attuale assetto internazionale. Tuttavia, assistiamo negli ultimi anni alla cauta ma decisa configurazione delle potenze globali emergenti in un vero e proprio blocco conosciuto come BRICS (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica), al quale è anche dedicato l’ultimo numero della rivista dell’IsAG. I BRICS hanno già maturato posizioni comuni su questioni cruciali sul piano politico, economico, giuridico, etc. Proprio nella misura in cui i centri di potere possano andarsi a spostare e riequilibrare nel globo, e quindi il Brasile possa trovare perno e sponda in questo blocco emergente, può secondo lei tutto questo avere effetti positivi anche sulla lotta al narcotraffico?
Si, perché tutta questa situazione è legata essenzialmente agli Stati Uniti; inutile che ci giriamo intorno. Non viene detto perché c’è una paura o una complicità con gli USA. Quindi è probabile che con una redistribuzione del potere politico ed economico globale, questo problema possa essere smussato. Sono ottimista soprattutto per la droga che deriva dalle piantagioni, la cui esistenza attuale è un nonsense: le piantagioni per forza hanno bisogno della luce del sole per crescere e quindi sono visibili dall’alto. E siccome per definizione sono immobili, se non vengono distrutte è perché ci sono complicità dei paesi ospitanti. E siccome il prodotto delle piantagioni deve uscire in grosse quantità nei paesi adiacenti, queste grosse quantità possono passare solo con la complicità dei governi dei paesi di transito. Ma tutto nasce con la presenza di un collante complessivo: nel momento in cui gli Stati Uniti la smetteranno di proporsi come il gendarme dell’America centrale e meridionale nella lotta alla droga – con risultati che fino a questo momento sono quantomeno imbarazzanti – allora potrebbe anche mettersi in movimento una situazione diversa. Tra l’altro vorrei specificare che a dire che questi risultati sono imbarazzanti non sono solo io, ma una commissione del Senato nel 2005, di cui faceva parte anche Barack Obama.
Come ricordate anche nel vostro documento.
Esattamente. La commissione studiò attentamente la situazione colombiana dicendo che era lungi dall’essere risolta e che quindi il Plan Colombia non era servito per raggiungere gli obiettivi prefissati: non quello di abbattere la produzione di cocaina, che era rimasta inalterata, e nemmeno il problema dei conflitti e quindi del sangue che si versa in quel paese. La commissione ovviamente non è andata troppo oltre nell’inchiesta, ma con la stessa ci si era quantomeno chiesti come fossero stati impiegati quei soldi approvati dal Congresso americano. Bisognava solo approfondire altrove i risultati di quel lavoro, ma tutto il mondo ha una paura folle e finge di non vedere certe questioni.